Detenzione di materiale pedopornografico a fumetti: è reato!
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IL FATTO
Z.B. veniva trovato in possesso di circa 95.000 immagini a contenuto pornografico raffiguranti minori di 18 anni che lo stesso si era procurato tramite un sistema di condivisione peer- to-peer.
LA SENTENZA
L’imputato veniva condannato in primo grado per il reato di pornografia virtuale ai sensi dell’art. 600quater1 c.p. che estende la portata dei reati di pornografia minorile e di detenzione di materiale pedopornografico alle ipotesi di pornografia c.d. virtuale, costituita da “immagini virtuali” realizzate «con tecniche di elaborazione grafica non associate in tutto o in parte a situazioni reali, la cui qualità di rappresentazione fa apparire come vere situazioni non reali». Nella sentenza veniva dato atto del rinvenimento nelle unità di memoria del computer dell’imputato di numerosissimi files contenenti immagini di pornografia virtuale (nella forma di disegni o rappresentazioni fumettistiche) che ritraevano, usando le parole del Tribunale, «soggetti visibilmente minorenni (molti di loro in tenera età) intenti a subire pratiche ed atti sessuali», risultando, in svariati casi, «abiette e raccapriccianti».
Avverso la condanna di primo grado l’imputato proponeva appello, vedendo riformata la sentenza in assoluzione, peraltro con la formula ampiamente liberatoria «perché il fatto non sussiste»: il giudice di secondo grado riteneva, infatti, non sufficienti ad integrare il reato contestato le immagini in questione, in quanto non raffiguranti soggetti minori realmente esistenti, ma solo fumetti e/o cartoni animati, in quanto tali non idonee ad assumere una qualità di rappresentazione tale da far apparire come vere situazioni non reali.
Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello ha proposto ricorso per Cassazione, la quale ha concluso per l’accoglimento, disponendo l’annullamento della sentenza di assoluzione impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello per nuovo giudizio.
COMMENTO
Lo sforzo interpretativo della Suprema Corte parte dall’individuazione di una definizione di pornografia minorile, che – in assenza di una precisa indicazione normativa – è stata identificata dalla giurisprudenza nel «materiale rappresentativo che ritragga o rappresenti in maniera visiva un minore di diciotto anni implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita» (quale può essere anche la semplice esibizione lasciva dei genitali o della regione pubica), sul punto coordinandosi con la definizione contenuta nella Convenzione di New York del 2000 e con quella di Lanzarote del 2007.
I giudici hanno attuato quella che era l’intenzione profonda del legislatore, ovvero la volontà di proteggere non solo la specifica libertà sessuale del minore di volta in volta rappresentato, ma anche e soprattutto la necessità di tutelare tutti i soggetti minori da condotte concretamente pericolose per gli stessi: la diffusione e detenzione di materiale pedopornografico, anche di fantasia, andrebbero infatti ad alimentare l’attrazione sessuale verso i minorenni.
Il richiamo interpretativo della Cassazione si estende anche al rapporto esplicativo della c.d. Cyber Crime Convention, che sottolinea l’esigenza di reprimere ogni condotta di pedopornografia telematica, incluse immagini alterate «such as morphed images of natural persons», o anche generate per intero dal computer.
La protezione va diretta contro un comportamento che seppure non abbia offeso uno specifico minore (quello riprodotto nel materiale pedopornografico, che potrebbe anche essere “non reale”) potrebbe essere usato «to encourage or seduce children into participating in such acts, and hence form part of a subculture favouring child abuse».
Pertanto, secondo la Suprema Corte la nozione di immagine del minore impegnato in attività sessuali può ricomprendere anche «disegni, pitture, e tutto ciò che sia idoneo a dare allo spettatore l’idea che l’oggetto della rappresentazione pornografica sia un minore».
Contrariamente a quanto era stato sostenuto in precedenza, l’effettiva lesività della condotta non si ravvisa solo quando le immagini virtuali sono state create utilizzando altre immagini relative a situazioni “reali”, ma anche quando la rappresentazione grafica semplicemente sia idonea a “evocarle”.
Conclude quindi la Cassazione sostenendo che non è possibile escludere l’applicabilità dell’art. 600quater1 c.p. alle rappresentazioni fumettistiche, trattandosi di immagini la cui qualità di rappresentazione può far apparire come vere (o verosimili) situazioni non reali implicanti minori coinvolti in attività sessuali.
Analizzando infine la sentenza da un’ulteriore prospettiva, in questa sede non si può non far notare come con tale ampliamento interpretativo l’ambito della liceità nella navigazione a contenuto hard risulti oggi avere una restrizione in più, la quale deve essere tenuta ben presente anche da parte di soggetti che possono venire a contatto e usufruire di questo genere di materiali senza ravvisarne in modo immediato l’illiceità.
avv. Anna Prandina