Molestie sessuali: anche il datore di lavoro "inerte" può risponderne
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IL FATTO
Una giovane donna dopo avere a lungo subito maltrattamenti e molestie sessuali sul luogo di lavoro da parte del proprio superiore gerarchico decide di denunciarlo.
Nel procedimento penale contro l’autore del reato, la vittima ottiene anche la citazione della società datrice di lavoro al fine di vedere accertata la sua responsabilità, insieme al molestatore, per i danni conseguenti alle condotte di quest’ultimo.
LA SENTENZA
Il Tribunale ha accertato la responsabilità penale dell’imputato, ritenendo integrati i maltrattamenti consistenti in apprezzamenti a sfondo sessuale, richieste di incontri fuori dall’orario di lavoro, battute volgari e insulti, anche di fronte ai colleghi, nonché le molestie sessuali (tra cui palpeggiamenti, strusciamenti del corpo e tentativi di estorcere baci), e condannandolo al risarcimento dei danni.
I giudici, inoltre, hanno ritenuto la società datrice di lavoro responsabile e obbligata a risarcire il danno alla donna molestata, insieme all’imputato. Il datore di lavoro, infatti, pur essendo al corrente delle molestie che la propria lavoratrice era costretta a subire, non l’ha adeguatamente tutelata; con la conseguenza che il medesimo deve rispondere del danno causato dal comportamento di colui che effettivamente ha posto in essere le molestie, anch’egli suo dipendente. Vengono qui in considerazione gli articoli 2049 e 2087 del codice civile, che sanciscono da un lato la responsabilità del datore di lavoro per il fatto illecito commesso dai propri subalterni nell’esercizio delle loro incombenze (laddove non dimostri di aver fatto tutto quanto possibile per impedire l’evento dannoso), dall’altro, l’obbligo del datore di lavoro di apprestare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti.
Il Tribunale, inoltre, ha ritenuto che la violazione dell’art. 2087 del codice civile da parte della società datrice di lavoro possa anche determinare la responsabilità penale del suo titolare (persona fisica), ai sensi dell’art. 40, comma 2, del codice penale, ai sensi del quale «non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo». Per i giudici, sebbene il datore di lavoro avesse l’obbligo giuridico di impedire la commissione del reato non ha assunto alcuna iniziativa, e dunque ha rafforzato, a causa della propria inerzia, il proposito criminoso dell’imputato.
Ma non solo: i giudici hanno valutato anche la possibilità di sottoporre a procedimento penale anche alcuni colleghi della vittima per il reato di falsa testimonianza, ritenendo false, o comunque inverosimili, le dichiarazioni effettuate dagli stessi durante il proprio esame testimoniale (per il timore di ritorsioni sul lavoro).
IL COMMENTO
La sentenza in esame ha valorizzato in modo esemplare la testimonianza della persona offesa, applicando nel processo penale le norme civili e penali, poste a tutela delle vittime di molestie e maltrattamenti sul luogo di lavoro.
Ha, in particolare, messo in luce la pregnante responsabilità che incombe sul datore di lavoro in tali circostanze, chiarendo che di fronte agli atti illeciti di un proprio dipendente, il medesimo non può semplicemente voltarsi dall’altra parte, ma deve intervenire per interrompere i comportamenti dannosi e per prevenire la ripetizione del reato, apprestando tutte le misure adeguate a tal fine. Il datore di lavoro, infatti, può liberarsi da detta responsabilità solo se riesce a fornire in giudizio la prova (peraltro non agevole) di avere fatto tutto il possibile per evitare l’evento. In difetto, è tenuto a rispondere, solidalmente con l’autore del reato, dei danni (anche di natura non patrimoniale) che quest’ultimo abbia causato.
Il Tribunale ha rilevato anche le conseguenze in cui possa incorrere un collega della vittima, che si renda colpevole di deposizioni inveritiere o lacunose, e ciò a prescindere dai motivi soggettivi che spingano il testimone a mentire, soprattutto se tale comportamento viene posto in essere allo scopo di “coprire” il collega che ha compiuto gli atti molesti.
Importante sentenza quindi, questa, che si spera possa essere da monito anche per tutti coloro che si trovano ad assistere (anche se non a subire direttamente) a episodi di violenza psicologica o di molestia sul luogo di lavoro, affinché gli stessi si facciano parte attiva nel prendere posizione a difesa della vittima, con l’auspicio che lo spirito di solidarietà possa fungere sempre più da prevenzione rispetto a tali abominevoli episodi.
avv. Anna Prandina